23/02/2023 - 13/05/2023
PALADINO
Mimmo Paladino (Paduli, 1948) ritorna ad esporre alla Galleria Christina Stein di Milano. Sono trascorsi quattro anni dalla sua ultima personale in Corso Monforte. Tornano a farsi ammirare le sue arcaiche composizioni che dialogano perfettamente con il modernismo geometrico e del segno, con l’informe e il surreale, con i ritmi e i contrasti del Mezzogiorno d’Italia, per un paesaggio fisico e mentale pieno di frammenti più che di immagini definite. Quella di Paladino è infatti una complessa strategia costruttiva grazie alla quale l’artista può condensare e riordinare simboli e figure di diversa origine ed estrazione senza chiusure ideologiche, rispettando un senso di armonia e di bellezza remota, infondendo un carattere ora lirico ora drammatico al lavoro, per un concerto polifonico di alti e bassi, di cromie accese e neri profondi, spazi vuoti e luminosi, salti nel buio e nel negativo. Paladino tende da sempre all’organizzazione perfettamente concertata di un flusso di immagini e al recupero di una deriva di frammenti che resterebbero sepolti sotto la superficie del presente. La sua arte sembra non dipendere dal tempo cronologico, quello che separa il giorno e la notte e che viaggia in una sola direzione lasciandosi alle spalle il passato, sotterrando sotto cumuli di rovine linguistiche l’origine cultuale e magica dell’arte.
Alle pareti vengono adesso presentate sei nuove opere, una delle quali di grandi dimensioni (Treno, 2022), come un fregio orizzontale, popolato da figure nere, sagome antropomorfe in posizione ieratica, quasi elementi di un coro tragico, attorniati da frammenti di teste, elementi geometrici, brandelli di oggetti e forme ritagliate che ricordano corpetti o gilet senza maniche. Le tre figure totemiche riposano su macchie simili a bitume, squadrate come fossero basamenti di un altare. Come a voler ribadire la sua defezione dalla mimesi, Paladino recupera in queste immagini di corpi, con le gambe praticamente incollate tra loro, statue egizie chiamate choanon di carattere magico. Come scrive Jean- Christophe Bailly: “Mentre il corpo immobile dello choanon veniva considerato in possesso di un potere, incarnando in senso autentico il dio, la statua ‘somigliante’ dell’epoca classica ha smesso di poter e soprattutto di voler essere un idolo”. Questo sta a significare che queste figure immobili di Paladino sono come idola di una rituale di cui abbiamo perso le tracce e il significato. Per uno strano gioco dell’immaginario più profondo, diremmo che queste sagome umane si innalzano verticalmente da una posizione orizzontale, come risorte da un sarcofago. In qualche modo questi corpi neri come legni fossili dialogano con immagini neolitiche disegnate sulle pareti di una caverna, con guerrieri e divinità al centro di un accampamento nomade o di una necropoli. Le sagome piatte di due sfere nere servono all’artista per dare un ritmo spazio temporale alla composizione e formalmente fanno da contraltare alle teste senza corpo. Fanno ordine e scandiscono la partitura mettendo un freno alla diaspora di segni e figure.
Quella di Paladino non è pittura né bidimensionale né tridimensionale. Sul piano di rappresentazione è abolita la prospettiva rinascimentale e gli elementi hanno identico
valore, siano essi figurativi, astratti, simbolici o decorativi. Più che convincerci della realtà aprono gli occhi sul mondo della reminiscenza e degli archetipi figurativi, sulla natura geometrica del mondo, sul lato surreale ed eloquente del sogno. Tutte assieme e come unità singole, le forme e le figure concorrono a far risorgere la memoria più remota, quella delle origini della storia dell’arte, restituendo al linguaggio visivo la sua funzione magica e sacrale. Come se l’arte fosse uno strumento in mano allo sciamano che cerca di mettere in comunicazione tra loro il mondo dei vivi e quello dei morti, l’inconscio e l’immaginazione, il piano antropologico e quello metafisico. Questo grande telero è risolto con la povertà dei materiali e con una scelta radicale dei colori, che si fermano al nero, al bianco, all’ ocra. Inutile cercare una narrazione esplicita, intellegibile con i mezzi della razionalità. La pittura - ci dice Paladino - è uno strumento in dote all’essere umano dai tempi preistorici, sorta tra le mani dei nostri progenitori caduti dagli alberi per salvarci dall’angoscia e dalla disperazione di vivere senza riconoscere un dio o una ragione, per esorcizzare il terrore della morte e del nulla, per parlare con i non vivi e con quelle presenze, quelle ombre che ci visitano quando chiudiamo gli occhi davanti alla realtà e li apriamo sul retro dello schermo. La storia dell’arte italiana viaggia anche su questo binario cosparso di frammenti, sinopie, calchi polverosi e sculture lignee bruciate, squarci e crepe millenarie, disiecta membra, rovine e splendore, luce e tenebra. E spesse volte, questo binario, incrocia la perfetta geometria di un una sfera tangente, un piano monocromo, che ha l’aspetto di una soglia o balaustra, in un paesaggio in cui il tempo si è arrestato e la realtà sembra poter trascendere l’effimera natura dell’esistenza per ripresentarsi sotto l’aspetto di una più duratura metafisica.
Altri cinque lavori arricchiscono la nuova personale di Paladino. Si tratta di tele che come scrivevamo viaggiano sul doppio binario di arte metafisica e di immaginario arcaico. Lavori costruiti con il rigore di un artista fedele al linguaggio astratto più ortodosso, che da Paolo Uccello risale fino a Malevič. Tele che sembrano uscite da una catacomba o da una cripta dove il tempo ha bruciato i colori, come in un affresco di Cimabue. Bande monocrome, nere, rosse, giallo limone, blu mare, incorniciano ombre di figure umane, manichini. Due di queste figure manichino sembrano salire un podio, con una postura di robot (Senza titolo, 2021). Sono quadri-teatrino anche questi come quelli di de Chirico o Carrà. E in questa scena drammatica le figure di Paladino possono comunicare a modo loro con muse inquietanti, o passare del tempo in conversazione con qualche divinità metafisica. In tre casi la figura di origine antropomorfa sembra il residuo di un sacrificio (Dissolvenze, 2021). Assume la sostanza figurale di una sindone, impronta di un corpo sovrano, di un dio uomo che ha lasciato la sua traccia terrena prima di rinascere angelico. Come tracce di corpi arsi sembrano giacere, disfarsi, polverizzarsi. Forse appartengono alla terra da milioni di anni, così come all’inconscio, non fa differenza. Risorgono adesso per noi e compiono gesti di natura simbolica, come per ricordarci un rituale sacro. E allora, se il quadro è ancora spazio del sacro e la pittura ne è il suo linguaggio simbolico, la galleria può essere il recinto di un rito collettivo che per una sorta di inversione e apertura ci indirizza verso l’origine dell’arte, la sua intramontabile necessità e fondamentale funzione.
Gli esordi di Mimmo Paladino si collocano a ridosso delle avanguardie degli anni Sessanta-Settanta, quando l’artista espone a Caserta, Firenze e Napoli. Da allora, ogni sua opera è una stratificazione di immagini figurative e non figurative, decorative e simboliche. Da anni la sua ricerca si snoda liberamente tra pittura e scultura, tra installazione e scenografia, tra teatro e cinema inseguendo il sogno di un’arte totale e popolare che ha caratterizzato l’avventura occidentale da Giotto in poi. Centrale è il
rapporto che l’immagine stabilisce con lo spazio al di fuori della cornice del quadro, dalla quale l’artista tante volte evade, inserendo forme tridimensionali e aggettanti, oppure occupando il pavimento con elementi di bronzo o di legno. Così, a partire dal 1990, Paladino si è cimentato con lo spazio pubblico, come in Piazza Plebiscito a Napoli, dove ha costruito la celebre Montagna di sale, o a Firenze, dove ha realizzato l’imponente Croce di marmo in piazza Santa Croce nel 2012. Nel corso degli ultimi decenni ha poi sviluppato una speciale relazione con l’architettura e con la musica di cui riconosce i fondamenti matematici, visto che anche la bellezza o l’armonia di un quadro o di una singola immagine dipendono sempre da misure auree, da saldi rapporti geometrici. Il 'cavallo' di Paladino, ad esempio, nasce dalla geometria, tiene conto delle proporzioni: il monumento viene costruito per blocchi e porzioni matematicamente commisurate tra loro. L’opera in definitiva è costruita come una casa, e il cavallo in particolare è scultura- architettura, come un ponte o un arco. Misure auree e rapporti archetipici organizzano la disposizione dei segni sulla superficie o nello spazio in modo da caricare di energia ‘terrestre’ o ‘celeste’ ogni simbolo e ogni geroglifico, ogni archetipo figurale, anche quello più astratto o più decorativo. Non parrà arbitrario allora parlare di pittura e di quadro collegandosi al teatro, in particolare quello del Mediterraneo, luogo in cui musica, architettura, poesia, si sono sempre intrecciate tra loro. E poi fare riferimento al recinto sacro del villaggio e al cerchio magico dello sciamano, quello in cui la società trascende i propri limiti umani per reincarnarsi nelle altre forme di vita, tra visibile e invisibile, naturale e sovrannaturale. Partendo dalle avanguardie ma ‘ascoltando’ le origini, Paladino riesce a ricomporre l’infranto, ciò che va alla deriva, quanto appartenuto alla grande tradizione antica e arcaica dell’arte, anche utilizzando materiali e strumenti obsoleti, senza escludere ideologicamente alcun ‘recupero’, alcuna ‘appropriazione’, alcun materiale o strumento della tradizione, sia occidentale che extra-occidentale. Archeologia linguistica e nomadismo culturale come risposta alle ideologie e alla globalizzazione che, in modo diverso hanno scisso l’io dalle proprie origini e dalla propria intimità. Punto di riferimento, e di svolta rispetto ai movimenti delle seconde avanguardie concettuali e minimali, è in tal senso la soggettività, intesa come universo della sensibilità e dell’immaginazione. È il momento in cui – come recita il titolo di un’opera del 1977 – l’artista si ritira solitario a dipingere per integrare frammenti e lacerti, figure e simboli di oggi e di ieri (Giotto e Matisse, Gauguin e Piero della Francesca), e per restituire tanto alla pittura quanto alla scultura una potenza espressiva e di comunicazione illimitata e ciclica. In questo senso l’arte (quadro o scultura o installazione) con Paladino torna ad avere una funzione mitica o sacrale, cultuale e affabulatoria. Egli riunisce nel quadro o nella scultura un racconto – epos – ininterrotto le cui fila – iconografiche – si sono tuttavia spezzate in epoca moderna. Ogni opera di Paladino è come un punto di approdo della cultura mediterranea che a sua volta è luogo di incontro di linguaggi provenienti dai lidi e dai porti più lontani nel tempo e nello spazio. Ogni sua opera si può dire sia come uno specchio d’acqua, sulla cui superficie mossa emergono i frammenti sepolti delle civiltà antiche e dei primordi, per poi trascinarci nell’abisso del loro più originario significato.
In questi ultimi decenni grandi musei italiani e stranieri hanno organizzato mostre personali di Mimmo Paladino (Museo Pecci di Prato, Cà Pesaro a Venezia, Capodimonte di Napoli, Nuovo Museo di Montecarlo, Palazzo Reale di Milano, Lenbachhaus di Monaco, Kunstmuseum di Basilea e poi Lyon, Londra, Los Angeles). Le sue opere sono presenti nelle più importanti collezioni pubbliche e private. Paladino ha partecipato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, dove nel 1988 ha allestito una sala personale. Vanno ricordate inoltre la grande retrospettiva al Forte Belvedere di Firenze (1993) e
l’installazione ‘Montagna di sale’ in Piazza del Plebiscito a Napoli (1995). Del 1999 è l'installazione dell'opera Dormienti alla Roundhouse di Londra con musiche di Brian Eno, nel 2011 l’importante mostra al Palazzo Reale di Milano. Sue opere sono state esposte in vari punti della città di Brescia e Arezzo in due diverse mostre personali tra il 2017 e il 2020. Mimmo Paladino è il primo artista contemporaneo italiano ad aver presentato le sue opere in Cina in una mostra personale (Galleria Nazionale di Belle Arti di Pechino, 1994). Attualmente l’artista vive e lavora tra Paduli (Benevento) e Roma.
Sergio Risaliti
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Corso Monforte 23, Milano
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