22/02/2025 - 23/03/2025
Ettore Pinelli - Senza Tragedia
Il termine della visione
Ogni immagine è destinata a scomparire: che sia quella della memoria o quella dello spazio virtuale, il deterioramento è il destino fisiologico di ogni rappresentazione, del ricordo come del pixel; lo sappiamo bene. È un lutto per il quale non piangiamo. Eppure non riusciamo a sottrarci al messaggio che ci arriva, inconsapevoli dei processi che porteranno alla trasformazione, prima, e alla decomposizione totale, poi, delle icone grazie a cui crediamo di ricordare e interpretare il mondo.
Il ciclo di opere Hands of parliament del pittore Ettore Pinelli (Modica, 1984) prende avvio nel 2019, dalla ricerca e dallo studio delle immagini mediatiche di violenti scontri che talvolta esplodono nelle sedi parlamentari nel mondo - vediamo per esempio episodi avvenuti in Taiwan come in Ucraina. La visione documentativa (frame di video e fotografie) diventa sostrato per il ragionamento pittorico, votato al tempo dilatato dell’opera. Il campo d’indagine trasla dalla semantica della cronaca all’energia formale dei gesti che essa contiene: il pugno sulla guancia, le espressioni stravolte dall’ira, il disordine fisico, ascensionale, dei sopraffattori e dei sottomessi. I corpi si fanno caos e sovrapposizione: come nella Battaglia dei centauri di Michelangelo ogni singola fisicità si mescola alle altre formando un unico soggetto dentro il quale si agitano i furiosi. Ettore Pinelli scorge nel tumulto la radice: l’istinto brutale sdoganato nei luoghi destinati all’incontro politico è il pericoloso paradosso a cui pieghiamo la testa servili, è un’immagine che passa senza tragedia, senza che in noi esploda l’urgenza del reclamo, di rispondere almeno a ciò che si vede.
Pinelli ci costringe a masticare una visione che verrebbe deglutita senza fiatare. Vedere, nell’opera di Pinelli, diventa un’intuizione, un ricomporre mentale di quanto si cela sotto il velo che il pittore deposita dentro il perimetro dell’immagine. Ecco che ha inizio il processo: dalla prima rilettura monocromatica sulla tela della testimonianza mediatica originaria, l’immagine talvolta viene coperta da uno o più strati cromatici, che sebbene non cancellino definitivamente la prima rappresentazione, iniziano a comprometterne la leggibilità e comprensione immediata, allontanando definitivamente il medium di partenza da quello pittorico.
L’immagine di informazione rivela in questo modo tutto il suo debito alla dimensione del dubbio, dell’indistinto sconfinamento dei contorni. Ciò che nacque come traduzione fedele dell’evento ci si propone come interrogativo ambiguo delle forme.
Pinelli non vela mai col colore l’intera superficie della tela, ma un perimetro di poco inferiore. Ciò che resta di visibile della prima immagine, sui bordi, è come il suggerimento per la sua ricostruzione immaginaria, un corpo più esteso del suo stesso sudario. Sebbene l’immagine (mnemonica o mediatica) sia destinata a perdersi, Pinelli fa in modo che la sua prima traccia non venga davvero cancellata, obnubilata semmai dalle informazioni cromatiche aggiuntive che vi deposita. Come se fosse in accordo con l’idea di Freud secondo cui “nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi”1 Pinelli ci mette di fronte alla resistenza effettiva di quella prima reale impressione, ora inaccessibile e recuperabile soltanto grazie alla soggettiva immaginazione dello spettatore.
Il percorso di mostra ha in sé tutta la tensione consapevole della ricerca di Ettore Pinelli, racchiusa nel cordone lessicale dei suoi stessi titoli: nelle parole “deny” (negare), “destroy” (distruggere), “dissolve” (dissolvere) è scritta la meta a cui il visibile è condotto dall’artista per fasi graduali. Dandocene prova, alla fine: nella distruzione in “three steps” (tre passi) dell’immagine, Pinelli incarna solo apparentemente lo spirito di violenza che muove e frantuma i lineamenti dei suoi soggetti. Si fa invece accompagnatore, potremmo dire, della terminalità insita in ogni rappresentazione e, allo stesso tempo, recuperante del suo ultimo palpito vitale, scoprendo che, come Pinelli stesso afferma: “alla fine del processo l’opera mantiene l’energia che ha sempre custodito”.
Un discorso che per certi aspetti può far tornare alla mente l’opera di Nino Migliori del 1976 Accumulo e sottrazione della memoria in cui più negativi tratti dalle immagini più cruente della storia contemporanea una volta sovrapposti si annullano in un’unica immagine bianca, solo idealmente priva ormai di qualsiasi traccia o informazione.
Ettore Pinelli ci mostra nel suo lavoro il furto che è stato fatto all’osceno della sua stessa etimologia: da ciò che vive “fuori dalla scena” - in accordo con la tradizione del teatro greco che voleva la rappresentazione della violenza e dell’immorale dietro le quinte, lontano dallo sguardo del pubblico - a stanco protagonista senza messaggio del palco mediatico.
Ecco allora che i veli blu turchese o blu cobalto sulle tele in scala di grigi di Pinelli possono diventare l’ideale ritorno al pudore di ciò che dovrebbe rimanerci celato. Mai come censura, ma come spazio di riflessione e sottile separazione dallo sguardo diretto dell’osservatore, la velatura informa della possibilità di una distanza dall’immagine, forse della sua necessità.
Pinelli è indubbiamente consapevole di quanto potenti siano i filtri attraverso i quali passa l’assorbimento delle immagini e il loro potere trasformativo, tanto che lo stesso autore parla di “trasformazione autonoma” quando racconta dell’indipendenza che talvolta il soggetto pittorico possiede nel suo nascere sulla tela.
Nella riflessione di Ettore Pinelli ritroviamo racchiusa tutta la battaglia che l’immagine intrattiene con se stessa per continuare a imporsi allo sguardo, tutta l’ingovernabilità della lotta tra esseri umani, tutta la prevedibilità degli schemi formali che assume la violenza, riconoscibile anche quando dissimulata. Per questo motivo resta all’artista il compito di trasportare l’immagine là dove possa prendere commiato per rivelare in un ultimo slancio il proprio contenuto vero, l’autentica parola di conoscenza sepolta dal cumulo dei dettagli superflui del realismo. Ettore Pinelli porta l’immagine al momento del proprio sacrificio, al culmine della sua tragedia perché possa avvenire la rivoluzione a cui era destinata fin dal principio. Il sacrificio è un percorso lento: l’immagine è finalmente svanita.
Carola Allemandi
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (citazione tratta da Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, p. 31).