01/02/2015 - 14/03/2015

CORRĂ€ | DURNER | RITMI E TONI

Il paesaggio urbano è uno dei soggetti più amati dagli artisti, e dagli impressionisti in poi ha vissuto un’evoluzione che lo ha portato ad essere forse il genere più fedele nel rispecchiare le trasformazioni della nostra società. Dalle corse dei cavalli nella Parigi frenetica e gaudente di fine Ottocento, raccontate da Degas o da Manet, agli scorci delle cittadine provenzali, rielaborati da Van Gogh attraverso i propri incubi. Dalle architetture solenni e sottilmente tragiche di Sironi, riflesso degli anni più bui tra le due guerre, fino all’America benpensante e ipocrita che Hopper metteva in scena tra strade desolate e locali notturni illuminati da una luce gelida e crudele. La città come specchio dell’anima, dunque, o forse, più precisamente, come specchio dei mali dell’anima di una società che, oggi più che mai, arranca alla ricerca di un’identità forte. Ma, anche, la città come colonna sonora dei nostri pensieri, come sottofondo immancabile e implacabile, imprescindibile anche per chi ancora riesce a vivere fuori dalla frenesia della metropoli, ma che in un mondo diventato villaggio globale dalla metropoli non può prescindere, per il suo lavoro e anche per il suo svago e il suo tempo libero. Ecco allora tre artisti che incarnano questa lettura della città e della sua anima inquieta. Il tedesco Jürgen Durner fa suo lo spirito più autentico della metropoli contemporanea, quella dei grattacieli di cristallo e di acciaio, quella delle luci artificiali che accendono la notte rendendola ancora più viva e vorticante del giorno, quella delle auto e dell’asfalto. Ama la metropoli – e del resto vive a Berlino, una delle più sfaccettate e stimolanti d’Europa – e ce la racconta attraverso ritratti appassionati in cui piccoli dettagli diventano microcosmo e archetipo dell’ambiente urbano. Gli basta una vetrina illuminata di taglio dalla lama gelida della luce artificiale perché quella semplice lastra di vetro diventi pozzo senza fondo, contenitore di storie. Ecco, infatti, che nella vetrina si specchia il febbrile scorrere della vita, fuori, con le facciate degli edifici vivide e vibranti nella luminosità incerta del crepuscolo e con i fari delle auto che sembrano lasciare scie indelebili. E poi, oltre la superficie, attraente come lo specchio di Alice, ecco lo scheletro di quell’architettura di cui ci è dato di cogliere solo quel piccolo scorcio: un esercito di montanti colorati a creare un vivace andamento verticale, profili di scalini a scandire lo spazio orizzontalmente, oppure l’elegante movimento elicoidale di una scalinata dal corrimano in cristallo, il cui gioco sinuoso trova un rimando emotivo nella forma morbida delle nuvole che si vedono ancora più in là, oltre l’ennesima finestra. Giocando su ritmi accattivanti, con un gusto del particolare proprio di chi è capace di rendere col pennello anche il più infinitesimale dettaglio di realtà, l’artista riesce nella difficile sfida di fermare il tempo. La sensazione infatti è quella di essere stati dotati di un terzo occhio, di una nuova facoltà vagamente magica che ci permettere di vedere oltre il possibile e ovunque, anche dietro di noi; di vedere l’istante presente, ma anche il prima e il dopo; in un gioco non tanto diverso da quello di certa narrativa contemporanea, dove la stessa storia è raccontata da più voci narranti, da più punti di vista diversi, con la sensazione, per il lettore, di essere portato ogni volta un po’ più a fondo nella realtà. Silenziosa, sigillata in un sottovuoto immobile, la città di Giorgio Tonelli appare intatta, immacolata. Per certi versi l’esatto opposto rispetto a quella del collega tedesco. Questa di Tonelli è una metropoli depurata da tutto quello che di chiassoso, disordinato e frenetico solitamente la contraddistingue nel nostro immaginario. Ne resta una sorta di monumento solenne, quasi mistico, al vivere contemporaneo, profondamente intriso di tutto quello che è stata l’arte del grande Novecento italiano (la grandiosa esperienza della Metafisica, innanzitutto, Sironi), e tuttavia estremamente attuale nella scelta di suddividere lo spazio in campiture di colore piane e omogenee e in quella semplificazione delle forme estremizzata al punto da far supporre allo spettatore che tutto il dipinto possa essere scomposto e analizzato per formule matematiche, in un gioco di pieni e di vuoti, di ombre e luci, che l’occhio legge, rielabora e coglie come coglierebbe una partitura astratta. L’uomo, portatore di un disordine e di una caotica casualità che mai potrebbero essere ammessi in una realtà così perfetta, è cacciato da questo Eden di cemento e di pietra. Vi lascia un’urbanizzazione senza sbavature, che – così deserta – appare ai nostri occhi come uno scenario teatrale in attesa di attori.
Rivolte verso il cielo, colte nell’attimo estremo di un canto muto, le sculture di Marcello Corrà si collocano in questo contesto metropolitano non solo perché diverse opere monumentali dell’artista hanno trovato sede in spazi urbani adattandovisi in perfetta armonia, ma anche perché questi lavori dall’andamento sinuoso e curvilineo, scanditi da un sistema di corde che appaiono come contrafforti posti a sorreggerli, hanno in sé qualcosa di profondamente architettonico. Proprio, verrebbe da dire, della progettazione più visionaria dell’ultima generazione di archistar, da Frank Gehry a Zaha Hadid e Daniel Libeskind. Ma c’è dell’altro: l’andamento di quelle forme rivolte verso il cielo, la svettante verticalità, la struttura vagamente antropomorfa ne fanno gli abitanti di una città ideale, archetipa, posta a metà tra il caos frenetico della metropoli di Durner e l’ordine matematico di quella di Tonelli. Ridotte a una forma minimale di umanità, prese in una danza segreta, sulla musica misteriosa che scaturisce come un incantesimo dalle loro corde, queste figure incarnano l’anima scissa e contraddittoria della società di questo inizio millennio. A tratti disperata, affacciata su un futuro incerto come su di un precipizio, e tuttavia ancora capace di uno slancio eroico, che la porti oltre le sue paure con la grazia di un passo di danza.

GALLERIA PUNTO SULL'ARTE