17/05/2015 - 11/06/2015
DEL MONTE | HÖJEBERG | SUSSURRI
Quando si deve parlare di arte al femminile, ci si trova davanti a un inevitabile momento di stallo. Perché già la definizione porta in sé una serie di trappole pericolosissime e la prima (ovvia, ma forse non per tutti) è che a nessuno mai verrebbe in mente di parlare di “arte al maschile”. Eppure l’arte al femminile è una pianta che non solo ha ancora bisogno di essere studiata, ma anche coltivata. La convinzione che oggi donne e uomini artisti lavorino in una condizione di parità è un errore grossolano. Non accadeva solo ai tempi di Artemisia Gentileschi o magari di Berthe Morisot e Mary Cassatt che le artiste fossero mosche bianche. Sfogliando – tanto per fare un esempio a caso – l’ultimo catalogo della Fiera di Bologna, si fa una scoperta: scorrendo i nomi degli artisti trattati dalle gallerie (e siamo tutti d’accordo sul fatto che Artefiera sia un buon campione per quanto riguarda le gallerie italiane) si nota che quelli femminili rappresentano una percentuale davvero bassa. Non è certo questa la sede idonea ad indagare i perché, ma è chiaro che questo dato ci pone di fronte a una realtà: parlare di arte al femminile è tutt’altro che scontato. Forse – oso – è un dovere. Parlare di arte al femminile significa scandagliare nell’insieme caotico e multiforme dell’arte contemporanea per scovare un filone prezioso e lì indagare le correnti e le emozioni che sottendono questa fetta particolare e unica nel mondo delle arti visive. Non necessariamente caratterizzata da toni più delicati o da temi diversi, ma certamente da un approccio altro, più viscerale, più interiore, più “di pancia”. Forse perché, costretta per tanto tempo a rinunciare al “fuori”, la donna ha imparato a guardarsi molto bene dentro, e sono le sue emozioni e il suo sentire a filtrare i dati della realtà. Meno orientata sul sociale e più sul particolare la voce femminile usa molto più spesso il sussurro che non l’urlo. Ecco allora una mostra sussurrata.
Tre donne: tre racconti diversissimi, personalissimi, eppure uniti da una profondità di analisi che ci arriva come un suono leggero, direttamente al cuore.
Le sue tipiche figure aeree, leggerissime, in bronzo, corda e anche vetro, prenderanno possesso dell’intero spazio della galleria. Caratterizzati dal fisico esile e dalle gambe lunghissime, i personaggi protagonisti dei lavori di Pinna sono senz’altro figli della poetica di Giacometti, alleggerita però della sua cupa drammaticità per acquisire una sorta di malinconico sorriso, uno sguardo tra l’ingenuo e il disincantato sulla realtà.
Innamorato dei fumetti e di tutti i linguaggi capaci di parlare immediatamente al cuore della gente, l’artista riesce nella difficile impresa di comunicare emozioni, sentimenti, tratti psicologici senza il bisogno delle espressioni del volto (i visi dei suoi personaggi sono risolti in pochi tratti: la fronte e la linea del naso) ma con il solo incurvarsi pensoso di una schiena, o con l’inclinarsi del corpo in precarie situazioni di disequilibrio, lasciando nello spettatore un sottile senso di instabilità esistenziale.
Ilaria Del Monte è una cantastorie contemporanea, una maga inventrice di favole intrise di incantesimi e abitate da personaggi fatati. Giovanissima, padroneggia una pittura potente e intensa, figlia del grande Novecento italiano.
Nelle sue tele si respirano echi di De Chirico e Carrà, di Casorati e del più vicino Balthus, ma anche suggestioni che possiamo far risalire fino al nostro Quattrocento. Con grazia, senza alcuna pesantezza, l’artista rielabora queste lezioni preziose e ce le restituisce in punta di pennello attraverso i suoi interni fioriti, deliziosamente folli, dove figure femminili leggiadre si intrattengono con piante sottilmente invasive o chiacchierano con animali parlanti, come giovani bellissime streghe. La qualità della pittura e la nitidezza del segno si fanno pelle morbida e luminosa, chiome soffici, infiorescenze ipertrofiche o fioriture di piante tropicali su tappeti che sembrano prendere vita.
Nell’architettura perfetta di queste stanze – che potrebbero essere uscite da un romanzo di Márquez o da un racconto di Isabel Allende – si svolgono dialoghi misteriosi, si odono sussurri squisitamente femminili, si colgono gesti e danze di cui a volte sfugge il senso ma che lasciano incantati e ipnotizzati, mentre decifriamo qualche traccia leggibile nei simboli dell’iconografia classica che l’artista ha disseminato nel dipinto per noi: dal pesce al cervo, al pavone, alla figura perfetta e eterna dell’uovo. Intanto, però, a una seconda occhiata, la prospettiva mostra cedimenti leggerissimi, come un vago precipitare verso lo spettatore per catturarlo. E una sorta di erosione interiore, rivelata anche dalle tappezzerie che vanno lentamente scollandosi dal muro, ci riempie di incertezza e di inquietudine.
Ancora stanze per Tina Sgrò. Quasi come se questi interni diventassero metafora del guardarsi dentro. Ma le stanze di Tina non hanno abitanti, sono esse stesse vive, respiranti, e i sussurri che sentiamo provengono dal loro cuore misterioso. Capace di una gestione ineccepibile delle luci e delle ombre, maestra nel costruire un ambiente usando un solo colore e giocando esclusivamente sull’intensità dei toni e sul fulgore della luce, l’artista ci regala questa teoria di ambienti che a uno studio attento ci appaiono come una galleria di ritratti e di emozioni. Concentrata su un obiettivo precisissimo, coerente da sempre a questa pittura e tuttavia sempre fresca, nuovissima, mai ripetitiva, l’artista dosa sapientemente sulla tela dolcezza e furore. La dolcezza è quella dei toni che vanno sfumando gradualmente uno nell’altro, dei contorni che non sono mai netti, ma sempre avvolti da una bruma soffice, delle luci soffuse che vanno ad insinuarsi negli angoli e con il loro contatto leggero scolpiscono le forme.
Il furore è quello del gesto, perché Tina Sgrò, a dispetto di quella che può essere la prima impressione davanti ai suoi lavori eleganti ed equilibrati, è una pittrice dal gesto potente, un’istintiva che ha fatto sua la lezione delle grandi avanguardie. In pennellate veloci e decise, senza tentennamenti né esitazioni, l’immagine va prendendo vita sulla tela, tra ombre palpitanti e luci che all’improvviso squarciano il silenzio.
E quello che resta è una pittura fortemente emotiva, sensoriale, verrebbe da dire. Senza fatica, ci accorgiamo che di quelle stanze riusciamo ad avvertire il profumo, un misto di legni antichi, polvere, e qualche nota di gelsomino o di ambra lasciati dal passaggio fugace di una figura femminile; ne avvertiamo al tatto la consistenza, morbida nei velluti e nei broccati, liscia e sfuggente nelle superfici lucide.
Ma, soprattutto, di quelle stanze udiamo i suoni: il ticchettio soporifero di una vecchia pendola, il fruscio leggero della tenda mossa dal vento e i sussurri di discorsi antichi, di confidenze segrete, mai dimenticate, rimaste nascoste negli angoli più bui solo per rivelarsi a noi.
Sceglie un linguaggio completamente diverso Jill Höjeberg, quello della scultura astratta. Dopo anni di oblio, in cui i pochi artisti che si dedicavano all’astratto venivano giudicati, con una certa apprensione, o folli o coraggiosissimi eroi, l’arte aniconica sta vivendo un nuovo momento di fortuna. Il mercato la cerca e molti giovani artisti ricominciano a cimentarvisi.
Non è un terreno facile, quello dell’astratto, soprattutto quando si parla di scultura: troppi mostri sacri difficili da eguagliare. Eppure il potere evocativo dell’astratto, la sua capacità quasi magica di toccare corde profonde arrivandovi direttamente, senza bisogno di passare attraverso i canali percettivi, in gesti lievi come un sussurro, è qualcosa di unico, qualcosa che quando lo si padroneggia dà all’artista un accesso diretto alle emozioni del fruitore. E’ questo che fa Jill. Perché le sue sculture nascono proprio dall’esigenza di trasformare le emozioni in forme solide. Spogliando il gesto di ogni dettaglio superfluo, riducendo il movimento alla sua sola sostanza, ecco che Jill trasforma l’abbraccio di due innamorati in spirali di materia avvolte su se stesse, nodi scivolanti che ci lasciano costantemente nel terrore che finiranno per allentarsi.
L’abbraccio – che lei stessa definisce quasi più un abbraccio mentale che fisico: il pensiero di un abbraccio dedicato a una persona lontana – diventa qui corpo che si racchiude in se stesso, che cerca di afferrare nella solitudine, nel ricordo e nel raccoglimento l’emozione di una presenza. Marmo, alabastro, bronzo, vetro si fanno lettere di un alfabeto emotivo primordiale e universale, dove il coraggio diventa uno slancio della materia oltre un ostacolo, dove la maternità diventa legame inestricabile di forme e dove la femminilità si dispiega in forme accoglienti, figlie allo stesso modo delle Grandi Madri primitive e delle sinuose figure femminili di Henry Moore.