22/03/2014 - 03/05/2014
MASSAGRANDE | NIELSEN | QUARESIMA | ASSENZA ESSENZA
Forse mai come in questo scorcio di millennio, l’arte ha dimostrato la capacità di dispiegarsi in tante voci diverse: dal neopop al neosurrealismo, passando attraverso le ultime frange di una ritrovata figurazione, fino a un citazionismo coltissimo e ai vagiti delle nuove frontiere dell’astratto. Tra queste voci, poi, esiste una sorta di gruppo trasversale formato da quegli artisti che hanno scelto di esprimersi, come dire, per “sottrazione”. Non stiamo parlando di un minimalismo di maniera, giocato sul vuoto o su sterili geometrie. Stiamo parlando di qualcosa di molto più sottile e di molto più profondo. Una capacità di prendere per mano lo spettatore e guidarlo attraverso strade inaspettate dove trovare, forse, qualche risposta ai dilemmi del vivere contemporaneo. Stiamo parlando, insomma, di artisti che sono riusciti attraverso l’assenza ad arrivare all’essenza, al cuore, al senso stesso del reale. Noi ne abbiamo scelti tre. Due pittori italiani con una storia intensa alle spalle e uno scultore svedese capace di una poesia altissima, dalle vaghe suggestioni mistiche.
Ecco le stanze di Matteo Massagrande, ambienti dall’incanto ipnotico in cui viene voglia di perdersi. Vuote, sì, in quanto non solo disabitate, ma prive addirittura di arredi, di qualsiasi lascito. Eppure l’effettivo vuoto fisico è a malapena avvertito, subito emendato dalla profondità degli echi che risuonano tra i muri scrostati e le piastrelle consumate dal tempo, dai raffinatissimi giochi della luce morbida e pulviscolare, dal senso di un vissuto che si avverte ancora lì, presenza invisibile ma potente.
In un raccoglimento quasi mistico che fa pensare all’interno delle cattedrali gotiche – dove la luce va modificandosi di ora in ora, veicolata dalle grandi vetrate e riflessa sui pavimenti antichi – Massagrande ci conduce stanza dopo stanza usando il pennello proprio come un regista userebbe la cinepresa e offrendoci lunghissimi piani sequenza che ci portano sempre più in profondità dentro vicende delle quali, ancora, ci sfugge la trama, ma che ci hanno già preso il cuore.
Come nel capolavoro di Alejandro Amenábar, The others, dove i muri e le stanze hanno la stessa dirompente forza espressiva dei protagonisti (e dove la luce, guarda caso, è protagonista assoluta – e temuta – ad ogni spalancarsi dei tendaggi pesanti), o come in certe indimenticabili sequenze di Hitchcock; al netto, però, del senso di angosciosa attesa, che qui è sostituito da una sensazione di pacata curiosità, una sorta di vigile appagamento dei sensi. In questa chiave Massagrande può essere letto anche come un grande narratore di storie, un romanziere d’altri tempi. Le sue sono vicende dai ritmi lenti di cui lui ci regala l’istante, in cui ci fa penetrare solo un poco, quello che ci serve per sentirci coinvolti, avvinti, per poi lasciare alla nostra immaginazione il già accaduto e soprattutto ciò che accadrà. Quello che resta, indelebilmente fissato sulla tavola in pennellate scabre, è una sorta di eterno presente. Ed è quello che l’occhio, alla fine della contemplazione, coglie con una precisione e una nitidezza indiscutibili.
Meno sussurrato, concepito piuttosto come una potente partitura musicale, è il mondo di Paolo Quaresima. Una sinfonia dove spiccano gli ottoni, si direbbe. Qui non è il senso di vuoto a colmarci delle suggestioni narrative di un accaduto.
A catturarci è piuttosto quella vitalità palpitante che l’artista, con i suoi pennelli di precisione chirurgica, riesce a donare agli oggetti. Perché che quelle caraffe lucenti, quelle bottiglie, quella camicia abbandonata su una sedia, così come quella tovaglia o quella scatola su cui spicca, leggibilissima, una nota marca di aperitivo siano vive, respirino e ci guardino è una verità assoluta. Un dogma. Rappresentante di quella che si può definire la grande pittura italiana, quella che affonda le sue radici nel Rinascimento e che in qualche modo è riuscita a sopravvivere alle intemperie delle avanguardie più dissacranti, Quaresima ci regala squisiti pezzi di realtà. Ma lo fa sbaragliando – e smantellando – le nostre più profonde certezze percettive. Pensiamo al colore, per esempio. Una delle più grandi soddisfazioni visive davanti a un lavoro dell’artista (e parlo di puro piacere fisico: come affondare la mani nella sabbia tiepida o addentare una tavoletta di cioccolato…) è l’armonia della scala cromatica. La partitura di stoviglie azzurre e blu stemperate dalla tovaglia lilla, i giochi di verdi in bilico su un davanzale dalla persiana anch’essa verde, la teoria di finestre e balconi dove anche i panni stesi ad asciugare rispondono all’esigenza di un accordo di colore, toccano le nostre corde più profonde, il nostro intrinseco bisogno di ordine, e ci fanno sperare in un mondo così perfetto da accontentare anche il nostro occhio. Ed è proprio l’inserimento di questo artificio cromatico all’interno di un’immagine più che reale a creare il cortocircuito che ci incatena. E su realtà e artificio l’artista gioca di sponda anche quando decide, fatta salva una prospettiva di impeccabile veridicità, di dare a tutti gli oggetti inquadrati lo stesso identico peso pittorico. Si tratti del vaso panciuto in primo piano, sulla cui superficie la luce si specchia, o della piega infinitesimale in un angolo remoto della tovaglia.
E’ per questo che davanti ai lavori di Quaresima lo sguardo non riesce a fermarsi ma si smarrisce, chiamato da mille dettagli, da mille vocidiverse che reclamano la sua attenzione. Quelle degli abitanti di questa ultrarealtà perfetta nella quale ognuno vorrebbe vivere. Assente, dunque, l’uomo, sono gli oggetti a farsi presenza viva. Non solo come segni e testimonianza del suo esistere, ma come forme di vita autonome, assertive e potentemente presenti.
E’ invece proprio l’uomo il protagonista dei lavori di Johannes Nielsen. Un uomo solo nel mondo, senza orpelli né abiti: solo corpo. E quel corpo è poco più che scheletro, ridotto al minimo, all’archetipo, a un’idea.
Figlio delle figure ieratiche di Alberto Giacometti e del tenero plasticismo dei bronzi di Degas, slanciato in pose ginniche – quasi lo spiccare di un balzo – come i cavalli di Marino Marini, l’uomo di Nielsen incarna l’umanità intera colta nel suo anelito verso un ordine superiore. Che stia inginocchiato in preghiera, con lo sguardo rivolto al suolo e la schiena diritta, che stia rigido, quasi sull’attenti, ma con lo sguardo caparbiamente elevato al cielo, che spalanchi le braccia come in un saluto al sole, l’uomo di Nielsen appare sempre come rapito in un dialogo segreto con un’entità superiore.
Perché togliendo alla figura tutto quello che non è strettamente necessario, l’artista alla fine ha lasciato scoperta l’anima, ha rivelato l’essenza spirituale. Anche quando il soggetto appare impegnato in un esercizio ginnico particolarmente faticoso, anche quando sembra colto al culmine di un tuffo, con le gambe lanciate all’indietro e le braccia spalancate come ali, quello che salta all’occhio è il desiderio di superare un limite, la spinta oltre il sé. Non sorprende dunque che l’artista pensi ai suoi personaggi come ad alberi, che immagini gemme e poi intrichi di rami generarsi da quelle membra e crescere verso l’alto, verso la luce.
C’è una figura, in particolare, che potrebbe riassumere in sé tutta la poetica dell’artista. E’ un corpo senza connotazioni sessuali evidenti, come gli altri, ma verrebbe da immaginarlo donna, forse per quella piega solo un poco più morbida della gamba e soprattutto per quell’abbraccio totale, cosmico, che sembra racchiudere in sé tutto il mondo. Statuetta votiva creata da una civiltà proveniente da un futuro lontano, dove i generi sessuali si mescolano e si confondono in un’unica armonia, incarna una preghiera intima e solenne al tempo stesso. E mentre le braccia si stringono al petto in un gesto protettivo e consolatorio, la schiena, tesa all’indietro come un arco, spinge il capo all’insù; il viso si rivolge al cielo, sembra poterlo catturare tutto, in quella posizione, mentre la gola si spiega in un canto muto che è pura anima tradotta in voce, qualcosa di così assoluto da lasciarci spiazzati.