25/06/2021 - 18/09/2021
Davide Tranchina | From Afar - In lontananza a cura di Jessica Bianchera
Studio G7 presenta From Afar - In lontananza, prima mostra personale di Davide Tranchina negli spazi della galleria. Il progetto, a cura di Jessica Bianchera, si inserisce all’interno della ricerca dell’artista, da sempre incentrata sul tema dell’osservazione come pretesto per riflettere sulla natura stessa della fotografia. In particolare, Tranchina sceglie per questa esposizione di rielaborare un tema ricorrente nella sua prassi, il concetto di distanza.
Ispirandosi ai visionari, ai cosiddetti luoghi della visione e alla relazione tra soggetto e spazio di ispirazione, le opere esposte mostrano paesaggi destinati a essere osservarti in lontananza e, allo stesso tempo, da cui si può guardare lontano. Ciò che si restituisce è lo sguardo metafisico, ricostruito attraverso quegli stessi scenari fissati in un’epifania di luce. Attraverso un gioco di invenzione, Tranchina sagoma panorami differenti per poi irradiarli attraverso un controluce smaterializzandone le sembianze e ritraendoli attraverso il media della fotografia.
Lo stesso processo di sagomatura e stratificazione viene applicato sulle pareti della galleria proponendo un lavoro site-specific dove l’artista si serve delle matrici di carta in negativo per generare un ulteriore paesaggio impossibile e inafferrabile.
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È la luce la sostanza reale che dà forma
alle mie immagini [...] Attraverso il mio lavoro ho
scoperto che esiste comunque un momento
particolare in cui attraverso la luce finisce per
rivelarsi sulla superficie del mondo anche
qualcosa di apparentemente invisibile(1)
Luigi Ghirri
Luigi Ghirri scrisse queste parole nel 1989: sono gli anni in cui ricerca una nuova visione capace di configurarsi sempre più come un viaggio, inteso non tanto geograficamente e non solo fisicamente, ma anche e soprattutto posto all’interno della propria esperienza esistenziale per definire un inscindibile connubio tra paesaggio esterno e paesaggio interno, contingente e inafferrabile, reale e immaginato. O forse ricordato. O ancora: scoperto lentamente nella mente, costruito con la luce e, infine, visto come qualcosa di nuovo eppure familiare, intimamente legato al suo sguardo e contemporaneamente allo sguardo di molti. Un lavoro, il suo, che aveva a che vedere con la percezione di un luogo più che con la sua descrizione, “una geografia sentimentale dove gli itinerari non sono segnati e precisi, ma ubbidiscono agli strani grovigli del vedere”(2).
Osservando il lavoro di Davide Tranchina, le parole di Ghirri e la sua attenzione nei confronti del paesaggio come spazio di relazione tra esterno e interno che si definisce attraverso la luce trovano nuove letture e nuovi significati: in From Afar In lontananza ritroviamo una simile ineffabile suggestione, una parallela tensione verso i meccanismi della visione che va oltre la sperimentazione tecnica sul medium per addentrarsi nei significati più complessi del termine. La ricerca di Tranchina è da sempre incentrata sul tema dell’osservazione come pretesto per riflettere sulla natura stessa della fotografia, ne sono un esempio lavori come Apparent Horizons (2017 – 2020) in cui gioca ambiguamente con la percezione proponendo orizzonti che sembrano reali ma sono in realtà impressioni realizzate su pellicola polaroid, senza ricorrere alla macchina fotografica bensì utilizzando una diversa illuminazione per ottenere variabili temperature di colore e panorami sempre differenti in una sorta di geografia della luce, riuscendo a introdurre una riflessione sulla dimensione labile del concetto di orizzonte in quanto elemento che non esiste concretamente se non come simulazione in movimento, in continuo spostamento.
Ora Tranchina si sofferma, invece, sul concetto di distanza, su un paesaggio visto in lontananza, forse, un giorno, durante un viaggio o in un sogno; un paesaggio che non trova riscontro reale nel mondo, se non per una sagoma che sembra di riconoscere, un profilo che risulta familiare, ma che in verità si costruisce per associazione di idee, immagini, suggestioni; si fa con il sedimentarsi della memoria e appare ai nostri occhi come una visione: magica, mistica, metafisica. La fotografia diventa allora spazio della visione, innesco per una nuova possibilità immaginativa, luogo di un’epifania, avventura dello sguardo e del pensiero. Nelle opere di Tranchina ritroviamo la vibrazione del viaggio come momento di scoperta e contemporaneamente una certa quiete contemplativa. L’attitudine contemplativa riveste in effetti un ruolo chiave nelle opere in mostra: stando all’etimologia del sostantivo, “contemplazione” significa in primis “l’atto del contemplare, del guardare con assorto e intenso interesse”, ma anche “una profonda concentrazione della mente nella meditazione di cose divine o spirituali, elevazione dell’anima sopra ogni modo ordinario di conoscere, fino a una cognizione semplice e affettiva di Dio” e infine, in senso assoluto, “vita ascetica, mistica”(3).
È a questo immaginario che si rifà From Afar, i titoli dei lavori lo esplicitano: uno è ispirato da Pieve del Pino, dove Pier Paolo Pasolini concepì il famoso articolo Il vuoto del potere ovvero “l'articolo delle lucciole”(4), un pezzo che al di là di ogni connotazione politica, ci invita a riflettere sulla derimente scomparsa della bellezza nel mondo laddove la progressiva vocazione alla produzione e all’accumulo, l’insediamento di un sistema avvelenato da una vera e propria dittatura consumistica e capitalistica, il mercantilismo a oltranza, l’edonismo forsennato hanno portato alla morte certa di ciò che, nel mondo e nell’umanità, poteva ancora essere amato. Da allora parlare di lucciole equivale ad alludere, per via di metafora, ai tratti del mondo umano che rischiano di eclissarsi di fronte all’avanzata irreversibile della stereotipia sociale. I primi a scomparire come le lucciole sono per Pasolini gli intellettuali, offrendoci uno scenario desolante del nostro presente e del nostro futuro riscattato solo in parte da George Didi- Huberman, che citando Pasolini nel suo saggio Come le lucciole(5), apre a un’idea di sopravvivenza attraverso un confronto appassionato anche con Walter Benjamin e Giorgio Agamben, in cui sottolinea come l’accento vada indirizzato su ciò che resiste allo smantellamento generale e, come le lucciole, non è del tutto scomparso ma si fa strada in una nuova forma, più adatta al tempo presente, assumendo le vesti di una nuova intelligenza in cui si sommano quelle dei tempi passati. Così nell’opera di Tranchina l’immagine non cede alla tentazione di un baratro oscuro, ma si trasforma in un paesaggio dall’atmosfera lunare, con una luce sospesa ambiguamente tra il giorno e la notte. Un altro lavoro in mostra omaggia, invece, Cesare Mattei e l’omonima Rocchetta: un labirinto di torri, scalinate monumentali, sale di ricevimento, camere private in un pastiche di stili dal neomedievale al neorinascimentale, dal moresco al Liberty. Qui Mattei, medico e alchimista, si dedicò allo studio e alla divulgazione della medicina alternativa che battezzò “Elettromeopatia” e che gli garantì oltre alla fama mondiale, un alone misterioso, quasi magico. La sagoma iconica ed enigmatica di questo luogo si palesa nell’opera di Tranchina insieme a quella del monte da cui Mattei vide per la prima volta i ruderi medievali di quel castello sui quali sarebbe sorta la Rocchetta stessa(6). Tra i lavori esposti anche un dittico dedicato a David Lazzaretti - detto il Cristo dell’Amiata - e al Monte Labbro, dove il mistico scoprì una caverna - luogo di un’importante agnizione - e vi eresse una torre(7), punto di osservazione privilegiato sul Mar Tirreno e sull’Isola di Montecristo, alla quale Tranchina, nel 2012, ha dedicato la serie 40 giorni e 40 notti a Montecristo dopo una residenza in solitaria che ripercorreva i passi dello stesso Lazzaretti, il quale su quell’isola selvaggia e inaccessibile, vista per la prima volta dal suo eremo, aveva cercato visioni mistiche intense e rivelatrici. A Charles De Foucauld e al suo eremo nei pressi di Tamanrasset che affaccia su una porzione di Hoggar algerino, è dedicato, infine, l’unico lavoro in mostra in chiave di giallo: com’è noto nel 1901 Foucauld giunse in Algeria stabilendosi a Beni-Abbés, ai confini con il Marocco. Iniziò una vita conforme allo “stile di Nazaret”, basata sulla preghiera, sul silenzio, sul lavoro manuale e l’assistenza ai poveri. Qui definì le linee del suo pensiero e fondò un romitorio, dove accolse i poveri della regione e studiò la lingua dei Tuareg per agevolare il lavoro dei futuri missionari(8).
Al di là degli aspetti aneddotici, però, ciò che all’artista interessa realmente richiamare è lo spazio della visione e quella condizione privilegiata, unica, in cui attraverso la contemplazione di un luogo il pensiero si eleva al di sopra del contingente e osa dove mai aveva potuto. Chi osserva questi scatti cede
immediatamente alla tentazione di identificare un luogo preciso andando alla ricerca di un elemento riconoscibile, studiando l’andamento delle linee dell’orizzonte e dei profili dei colli e dei monti, ma è un esercizio vano perché si tratta di immagini che contengono una sorta di inganno, un enigma. Se è vero, infatti, che il viaggio, l’esplorazione, stanno alla base del lavoro di Tranchina (oltre all’esperienza a Montecristo ricordiamo la serie Strada Stellare realizzata tra il 2016 e il 2020 e pensata come occasione per riflettere sull’idea di distanza attraverso il movimento perpetuo che si snoda nel Bel Paese), in questo caso il suo andare verso quei luoghi remoti non si è spinto oltre i confini di una stanza. Nell’ultimo anno, dal suo studio a Bologna, l’artista ha esplorato mete lontane, eremi solitari, remote roccaforti per restituirne poi un’immagine fotografica che sa accennare a quei paesaggi senza però riprodurli in senso letterale e in questo senso sabotando il concetto di fotografia come documento di verità, per spostare il baricentro dell’opera dalla significazione all’immaginazione. Così, ci invita ad assumere lo sguardo di chi ha eletto quei luoghi a “santuario” di contemplazione mistica o intellettuale indagando la relazione tra soggetto e spazio di ispirazione attraverso paesaggi destinati a essere osservarti in lontananza ma, allo stesso tempo, da cui si può guardare lontano. Paesaggi che vanno ricercati nella memoria (individuale e collettiva) e nel potere immaginativo dell’artista ma che sono così lontani, così remoti nel pensiero, che ritornano a noi come un insieme stratificato di silhouette, un giustapporsi di skyline reali o immaginari - non importa - filtrati attraverso la luce metafisica dell’alba o del crepuscolo, quando osservando lontano e in controluce ci sembra che il paesaggio sia fatto di cartone (per parafrasare un altro famoso lavoro di Ghirri). Sono immagini che contengono in sé una certa malinconia, un’imprecisione del ricordo, un senso di sospensione e d’incanto che assume quasi il sapore di una fiaba. Ciò che Tranchina ci restituisce in effetti non è che una narrazione immaginifica, uno sguardo metafisico, ricostruito attraverso scenari fittizi fissati in un’epifania di luce: attraverso un gioco di invenzione, l’artista sagoma panorami differenti per poi irradiarli attraverso il controluce smaterializzandone le sembianze e fissandoli in uno scatto. Protagonista assoluta di questo processo e di ognuna di queste immagini è la luce, quella luce attraverso la quale “finisce per rivelarsi sulla superficie del mondo anche qualcosa di apparentemente invisibile” di cui parlava Ghirri.
La fotografia di Tranchina in From Afar è una sintesi estrema di un viaggio nelle sfumature del paesaggio per come immaginiamo possa essere stato percepito da chi ha scelto di posarvi gli occhi per sviluppare il proprio pensiero (Giordano Bruno diceva che “pensare è speculare per immagini”(9). Lavorando per accumulazione di livelli ma allo stesso tempo operando per sottrazione, l’artista riesce a far sì che questi paesaggi non si palesino mai prepotentemente agli occhi dell’osservatore, ma lo invita a soffermarsi un attimo di più. In questo senso, il concetto di “visione” richiamato in queste immagini, si sposa con un’idea di guardare che contiene in sé la capacità al contempo razionale ed emotiva di decifrare molteplici suggestioni e restituirle attraverso un gioco di percezione per trasformarle in pensiero visivo. Guardare diventa allora non solo forma di contemplazione, ma anche esercizio di introspezione. Tranchina si riferisce a uno sguardo interiore, alla capacità di vedere oltre la contingenza delle cose, a un’idea di paesaggio che non ha a che vedere necessariamente con l’immersione in uno spazio reale, ma che può essere richiamata come condizione emozionale, come luogo della mente. Un porto sicuro, un luogo di quiete per l’occhio e lo spirito perché, come scrive Maurice Merleau-Ponty(10), l’atto della visione è un prendere-parte, un abitare l’immagine, un essere coinvolti spiritualmente con ciò che si ha dinanzi.
1 Luigi Ghirri, Paesaggio Italiano, 1989, Electa / Gingko – Quaderni di Lotus, p. 84.
2 Ibidem.
3 Contemplazione, in Vocabolario Treccani online, https://www.treccani.it/vocabolario/contemplazione/ [ultima consultazione 20.06.2021 14:47].
4 Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere ovvero “l'articolo delle lucciole”, “Corriere della Sera”, 1 febbraio 1975.
5 Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza, Bollati Boringhieri, 2002.
6 Mario Facci, Il Conte Cesare Mattei, Parte 1: Famiglia, vita, opere, segreti e misteri e Parte 2:
La Rocchetta Mattei nella documentazione planimetrica e fotografica; Frammenti dell'archivio, della biblioteca e dell'epistolario Mattei; Il patrimonio ereditario del conte Cesare Mattei, Bologna, 2012; Simonetta Farnesi, Il Conte Cesare Mattei tra leggenda e realtà, OM Edizioni, 2018.
7 Alessandro Hellmann, David Lazzaretti. Vita, morte e miracoli di un figlio di Dio, Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa, 2013.
8 Pierre Sourisseau, Charles De Foucauld 1858-1916. Biografia, Effatà Edizioni, 2016.
9 Giordano Bruno, Opere mnemotecniche, edizione a cura di Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi, Adelphi, 2016.
10 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Ed Milella, 1971.