01/10/2021 - 13/10/2021
Gregorio Botta | Breathe out con un testo di Marinella Paderni
Breathe in, Breathe out (inspira/espira) sono le prime azioni che compiamo nell’attimo in cui veniamo al mondo abbandonando lo spazio placentare chiuso, protetto, per tuffarci nel flusso aperto della vita.
Due respiri annunciano il nostro affacciarsi e il suo fatale termine, due note d’aria che aprono e chiudono una presenza incerta sorretta da un soffio imperituro. Respirare non è un atto di libero arbitrio, è un movimento della natura che sfugge al controllo, di cui poco ci curiamo.
Ha qualcosa di vertiginoso sapere che il respiro precede il nostro esordio nella vita, decide il ritmo dell’esistenza ed è l’ultima nostra azione terrena, a cui saremo follemente attaccati fino alla fine.
Siamo una società ossessionata dalla precarietà dei corpi e dal controllo del tempo, che dimentica come la nostra sostanza sia fatta di aria. Prestiamo poca attenzione alla natura dei respiri che ci accompagnano e, ancora meno, ci soffermiamo a immaginare come l’aria definisca la nostra vita, gli spazi che abitiamo e l’esperienza nel tempo.
Un elemento con una massa, un volume, una temperatura, un odore, che assume qualità differenti a seconda del contesto, diventando ora respiro, fiato, soffio, afflato, esalazione. Quanti nomi abbiamo inventato per un movimento così sottile, quasi impercettibile, che sorregge il mondo animale e che abbiamo caricato di significati profondi?
L’aria è dentro di noi più di quanto ci ricordiamo, persino negli atteggiamenti e nel nostro modo di vedere il mondo: infatti, usiamo in senso figurato le espressioni “avere l’aria di...” o “darsi un’aria”, associandola al carattere dello sguardo. Respirare e vedere sono dunque due manifestazioni imparentate dell’essere che insieme definiscono i modi di percepire il mondo.
A questa materia lieve, onnipresente ma invisibile, tanto preziosa, Gregorio Botta ha dedicato una parte peculiare della sua ricerca artistica portando alla nostra attenzione la sua potenza visiva.
Breathe in e Breathe Out sono i due capitoli di un importante progetto a cui l’artista sta lavorando da diverso tempo, che parlano del senso dell’esistenza umana partendo dal soffio vitale e dal nostro rapporto
con esso.
Il primo è stato pensato per lo Studio Trisorio di Napoli e tratta il tema del respiro nel suo essere un movimento di espansione verso l’interno, esplorando interiormente le sue proprietà poetiche. La riflessione dell’artista continua in un secondo spazio d’azione sviluppato nella mostra bolognese allo Studio G7 e dedicato all’atto dell’espirazione, al lasciare fuoriuscire ciò che è trattenuto. Qui le opere comunicano l’idea del rilascio, dell’abbandono e della conseguente leggerezza, un moto che porta tuttavia con sé anche il significato della perdita.
“Quando inspiriamo è come se inghiottissimo una parte del mondo” dice l’artista indicando come il respiro possa diventare scultura.
È un’immagine altamente poetica pensare che il mondo viene a noi con un semplice gesto automatico, risucchiandolo dalle narici. E che i polmoni sono gli agenti di espansione della sua aeriforme essenza modellandolo ad ogni loro movimento.
Come tradurre in un’immagine riverberante la leggerezza, la corporeità senza peso, l’impercettibilità, l’energia di una sostanza che non si avverte ma che ci vive dentro e fuori?
Marcel Duchamp avrebbe usato la figura dell’infrasottile, Piero Manzoni ci giocò espirando dentro un palloncino e trasformando il fiato in un’opera d’arte ineffabile; Gregorio Botta ne esplora l’imponderabilità rivelando la sua natura metareale, quella più segreta e difficile da nominare, ricorrendo alla trascendenza che la materia del mondo può trasferire alle cose con la sua sensualità evocativa e struggente.
Per comunicare la potenza del respiro l’artista ricorre alla dialettica del “gioco delle evidenze”, un raffinato artificio linguistico che dà visibilità all’indefinitezza di un elemento impercettibile, creando un dialogo tra le qualità della materia che lo evocano, come gravità e leggerezza, corpo e vuoto, sembianza e profondità. Opposizioni apparenti che trovano invece un congiungimento nella tensione relazionale tra i materiali grevi (il metallo, la cera, la terracotta) e le trasparenze del vetro, della carta, un topos del suo lavoro; e che, nel divenire opera d’arte, conciliano ciò che sembra destinato a restare separato, indefinito - quello spazio minimo di tempo che c’è tra il prima e il dopo, tra il non essere più e il non essere ancora di ogni palpito di vita.
Allo Studio G7 Gregorio Botta ha creato una stanza del silenzio dentro la quale vivere poeticamente la percezione del respiro. Un’esperienza che si fa mediante le qualità del sensibile e dell’invisibile profuse grazie alle trasparenze dei vetri, alla sottile consistenza delle carte semitrasparenti, alla morbidezza calda della cera, alla leggerezza del segno dell’artista.
Non solo, l’azione dell’espiro (breathe out) viene suggerita dal carattere di levità delle opere che aleggiano nello spazio e comunicano l’impressione di una liberazione della materia (interna ed esterna) dalla gravità obbligata dei corpi, del distacco da ogni affanno. In questo movimento l’artista evoca il rilascio dello stato precedente di apnea (presente nella mostra Breathe in), l’allontanamento dalla sospensione temporanea del respiro a favore di un abbandono catartico e dell’apertura verso l’alto, il cielo.
La grande lastra in vetro dell’opera In molti luoghi ignoti accoglie lo spettatore come una soglia aperta verso di lui, invitandolo a esplorare l’indefinitezza intima dell’essere. Un’immagine mitica, rafforzata dalla
presenza di una coppa in cera posta sulla sommità, che rimanda al chiasma del passaggio tra entrare e uscire - come una porta che si può aprire da ambo le parti. Proprio come lo sguardo che si assume davanti all’opera, la quale può rappresentare anche una barriera invisibile da superare o che riflette lievemente la nostra immagine sfocata.
Un’indecifrabilità trasmessa nel suo insieme dall’installazione a scala Hölderlin Paradise e dalla grande carta Il cielo è a tal punto mentale, titolo tratto dalle parole della poetessa Emily Dickinson, molto cara
all’artista, a cui si è ispirato anche per il titolo dell’opera precedente.
Il cielo è a tal punto mentale - opera lieve come l’aria, enigmatica come può esserlo un cerchio dipinto sulla pelle semitrasparente della carta, al limite dell’essenziale - rafforza l’immagine del vuoto. Il cerchio sembra sospingerlo verso il fuori mentre la presenza sulla carta di leggere macchie color rosso sangue e di piccoli fiori di terracotta riporta alla corporeità, al peso dell’essere. Una tensione tra forze in apparenza contrapposte che si congiungono nello slancio verticale della seconda opera accompagnata dall’ascesa dei dischi di vetro verso l’alto; una dialettica di sguardi che si compiono infine con l’ultima opera Senza Titolo, dove il rilascio dell’aria trova un suo approdo nella forma orizzontale delle lastre di vetro e nella traccia di una presenza incastonata tra le due, un lacerto di materia, memoria di un altrove.
L’inconsapevolezza del nostro essere aria si associa ad un altro tema caro all’artista, sul quale Walter Benjamin ha tanto riflettuto a proposito della perdita dell’aura nell’opera d’arte - il tema dell’inafferabilità della visione.
Il filosofo tedesco parlava di potere della distanza insita nella natura delle opere d’arte affermando che sono “... Apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”4. Un movimento sublime di prossimità e distanza messo a fuoco da Gregorio Botta e riattualizzato nel suo nuovo lavoro allo scopo di rivelarci la potenza visiva dell’apparizione e della sparizione, quel gioco di evidenze che rende imponderabile la visione. Anche il respiro è quanto di più prossimo e distante abbiamo, una caratteristica singolare condivisa appunto con l’arte, che sfugge alle logiche materialistiche di questa modernità e ci consente di lasciar andare ciò che non ci ri-guarda.