10/10/2023 - 06/01/2024
Jacopo Mazzonelli | A ROOM
Nella “stanza” di Jacopo Mazzonelli il pubblico è immerso nell'essenza del suono evocato dalla
visione. A room ribadisce l'attenzione dell’artista per la produzione di opere che si basano sulla
traduzione di caratteri peculiari della musica in un proprio alfabeto visivo che ricompone di volta in
volta in configurazioni diverse. Praticando una visione laterale analitica, realizza sculture che si
basano su un impianto grafico, matematico e geometrico che attivano il ritmo e la musicalità senza
interessare fisicamente il senso dell'udito. Ogni sua opera risuona attraverso la vista: la negazione
del suono porta a osservarlo nel vivo della sua essenza. La sottile azione di sabotaggio messa in
atto da Mazzonelli nella sua pratica emancipa il suono dall'udito e attua una ri-significazione e ri-
valorizzazione dei sensi. Sperimenta la capacità di evocare il suono di strumenti musicali, elementi
legati alla musica, oggetti che misurano il tempo o che ne evidenziano il passaggio. Raccoglie e
inventaria parti costitutive di pianoforti, tastiere, orologi, macchine da scrivere, pagine di album
fotografici vittoriani, velluti e li archivia servendosene come propria grammatica di base. Nell'atto di
scomporre e ricomporre, visualizza le sue molteplici analisi del suono, di cui trattiene gli elementi e i
caratteri essenziali. La cura con cui Mazzonelli realizza le opere e la sensibilità per i materiali, che
indaga e lavora in autonomia, conduce a sintesi visive in cui nulla è lasciato al caso e dove il
controllo esercitato sull'opera è totale. Come nella pratica della musica, anche qui un'esecuzione
impeccabile richiede una lunga applicazione, che porta alla formalizzazione di opere asciutte ed
eleganti.
Con Antipiano, che presenta una distesa di soli tasti bianchi, il pubblico è invitato ad
un’esplorazione tattile e concettuale dell’opera, che rovescia i consueti rapporti di forza tra oggetto
e soggetto. Il suono e la sua rappresentazione sono il cuore concettuale del lavoro, che incarna
anche un tentativo poetico di dare un volto alle nostre paure, ad una geometria che ancora non
conosciamo.
In Le degré zéro è la macchina da scrivere a fornire all'opera un suo elemento di base, la classica
bobina di colore inchiostrata nero/rosso, che può essere tesa tra 10 cm e 4 m e si sostiene
attraverso un sistema di magneti incastonati tra sottili lastre di acciaio lucidato a specchio che
consentono di ottenere una linea prolungata all'infinito. Per l'artista, l'azione di scomporre il tempo
è, come evidenziano queste due opere, una necessità interiore di indagine del tempo stesso, legata
alla sofferenza esistenziale che deriva della presunzione con cui si pensa di poterlo governare. “La
mia è una risposta a questo frazionamento del tempo, che a livello sonoro è totale. Siamo passati
da una società in cui il suono veniva utilizzato per orientarci e orientare il tempo (la campana della
a una musica da arredamento”. Così Mazzonelli, nell'atto di dilatare la sua comfort zone, la
fa esplodere.
In diversi casi, Mazzonelli lascia un certo grado di autonomia all'opera, che può rimodularsi
facendosi di volta in volta pezzo singolo o installazione a seconda del contesto espositivo, così
come espandersi o contrarsi nello spazio. “C'è quasi l'idea di creare un canone, che poi è anche il
tema della fuga: i temi nelle fughe devono essere perfetti, e quindi devi costruire un meccanismo
modulare”. Nello strutturare il lavoro in serie e nella possibilità di rimodulare l'opera leggo un atto
di resistenza alla fine. Il tempo è dunque materiale dell'opera sia come pratica sia come oggetto. In
mostra ne è un esempio Emily Dickinson, composta da diversi elementi che presentano barre di
ottone e alluminio di lunghezze diverse su cui sono applicati quadranti di orologi da polso svuotati
di tutti gli ingranaggi. L'opera evidenzia l'ossessione per il tempo nella scelta dei materiali (i metalli
presentano diversi gradi di usura) e nella scansione del ritmo, visualizzato da una linea di orizzonte
comune ai singoli elementi. L'artista tenta qui un parallelo tra vacuità del tempo e pausa musicale
intesa come silenzio, evocando la relatività del tempo nella sua dimensione percettiva strettamente
personale.
Il tempo è l'oggetto di Finis, in cui è la parola fine a scandire il tempo. Una serie di rulli originali per
pianola meccanica presentano una delle estremità rimossa, come a simulare che i rotoli di carta
possano proseguire oltre l’intonaco della parete. “Finis” si palesa alla fine di ogni rullo e decreta la
morte del suono, il silenzio dopo l’esecuzione. Ad ogni passo, potendo idealmente percorrerla,
l'osservatore troverebbe un gradino che ripete incessantemente e ritmicamente la parola fine.
In Noiseless il tempo subentra come memoria individuale che Mazzonelli suggerisce come fallace.
L'errore nella rievocazione del tempo genera nella forma dell'opera da un minimo spostamento
fisico (una porzione della pagina viene tagliata e ruotata di pochi gradi) che l'artista impartisce a
una selezione di pagine di album fotografici vittoriani privati delle fotografie. Nella negazione della
linearità originaria e nella frattura grafica, tale errore visivo simile al “glitch” dato dalle oscillazioni
nelle velocità rotative dei piatti dei giradischi suggerisce la perdita di oggettività del tempo.
Se gli oggetti-alfabeto di cui si serve Mazzonelli sono riconoscibili e, in questo, rassicuranti, al
tempo stesso sono resi ambigui e perversi dalla rilettura che ne fa. In particolare, Diapason, che cita
l'archetipo della regola musicale tra echi antropomorfi, e sembra segnare un ulteriore passo nella
produzione dell'artista. È quasi un grande “glitch” esso stesso: nelle forme, che riprendono più un
andamento sinuoso che non i riferimenti meccanici sempre presenti nelle sue opere; nel materiale,
riprodotto ex novo in pietra acrilica invece di servirsi di un materiale di recupero; nel colore, un
pastello ovattato fuori dal tempo.
Francesca Guerisoli