13/03/2025 - 26/04/2025
Francesca Ferreri | Endless repairs
FRANCESCA FERRERI
Endless repairs
testo di Carola Allemandi
Inaugurazione giovedì 13 marzo, ore 18—21
14.03—26.04.2025
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La vita ha una sua temperatura: è nella misura del calore che trova il modo di crescere, continuare a essere, permanere in uno stato funzionale al suo svolgimento biologico. Il corpo ha in sé un flusso caldo che si muove, e che alimenta il mondo sconosciuto che è la forma fisica in cui abitiamo, e in cui ci identifichiamo. Noi siamo anche questo meccanismo in grado di funzionare al meglio a circa 36 gradi centigradi. Abbiamo ancora tutti la memoria recente di quanto peso questo dato abbia avuto negli ultimi anni, di quanto la temperatura fosse diventata il sintomo, il discrimine, il segnale per identificare il grado di pericolo a cui il nostro corpo fosse sottoposto. Certo che quando sentiamo il calore crescere, d’istinto ci allarmiamo: la febbre è un male in sé, ed è un sintomo ipotetico di un altro male più profondo; è il messaggio più chiaro che il nostro sistema organico riesce a formulare per chiederci attenzione. Francesca Ferreri (Savigliano, 1981) usa la materia per dare forma al sintomo: la galleria è, adesso, un corpo infiammato. Da molto tempo, ma soprattutto dal 2022 (anno in cui la temperatura è salita nel corpo dell’artista facendole fronteggiare il malessere incarnato allora dal covid), il pensiero di Ferreri ha iniziato a orientarsi verso la disamina del significato dell’infiammazione, questo segnale che il corpo usa per parlarci. Nel disegno Ferreri trova la sequenza, la gestualità latente del calore quando cresce sottopelle; i Fever Drawings (2022), finora inediti, sono la prima impressione del trauma, dell’algoritmo impazzito di cui siamo in balia nel picco incontrollato dell’infiammazione. Noi stessi ci troviamo ora nel ruolo di corpi infestanti, non si sa se ancora benigni o già guastatori: siamo noi i batteri che, camminando, rischiamo di contaminare ciò che tocchiamo, calpestando a terra la spina dorsale dell’anatomia in pericolo dello spazio, gli organi che ci troviamo a percorrere.
Il corpo, infiammandosi, ci lancia gridi differenti: li vedremo pian piano.
Il dolor (dolore) è l’aculeo incolore che, sporgendo verso di noi, ci racconta della fitta lieve che prelude all’insorgere di qualsiasi danno. L’artista sa che la manifestazione non possiede mai un significato decisivo, o univoco: ogni sintomo è un segnale che nasce con la volontà di salvarci, non di ferirci. Il corpo vuole questo per noi: toglierci dallo strapiombo e portarci in salvo. Il concetto di restauro, che già appartiene alla ricerca di Ferreri nel pensiero e nei materiali, si fa in questo caso prosecuzione di un discorso, un ampliamento: la riparazione di un danno nasce dalla volontà di conservare o di tornare allo stato indenne precedente di una certa realtà fisica. Quando inascoltati, i segnali propedeutici alla riparazione si trasformano presto in male, un ulteriore squarcio sulla materia rovinata; il corpo deve ricominciare da capo il proprio lavoro di rammendo. Il ciclo eterno della riparazione.
Col dolore, nel processo infiammatorio, arriva il rubor (rossore): il corpo diventa l’altare votivo dedicato al colore del proprio stesso sintomo; le braccia aperte dell’opera lanciano l’appello a guardare l’icona dello spirito, conservata sull’eritema di uno sterno capovolto, orizzontale.
Alziamo gli occhi: angeli rossastri e metallici stazionano sul soffitto, ci guardano da lì. Il (calore) si muove sull’altezza, ci sovrasta: nel flusso misterioso che fa aumentare i gradi, e quindi scombinare la regolarità chimica da cui dipende il nostro concetto di salute - andiamo a vedere la grande tela di lino dipinta ad acrilico e olio - il calore è un battito d’ali che rende l’aria più pesante, il nostro fiato più corto, la pelle già sudata.
Francesca Ferreri fa in modo che la materia inanimata parli della nostra febbre, del suo significato latente, mentre i batteri sono liberi di muoversi a terra e sulle pareti nella loro forma circolare - quasi primitive ruote - con l’anima cava e mai, ribadiamolo, per forza maligni. Il tumor (gonfiore) è il nostro quarto grido: vediamo la pelle della parete sollevarsi, tumefarsi i suoi tessuti; forse se la sfiorassimo le faremmo male.
L’operazione che compie Ferreri non è da intendersi come la mera registrazione del funzionamento della nostra biologia. L’artista non sta mettendo l’organismo sotto un vetrino come Giuseppe Penone (Svolgere la propria pelle, 1970), né tantomeno l’arte è qui chiamata ad avere come referente il corpo vero e sanguigno della tradizione performativa: questi sono sintomi che parlano a ogni corpo; è l’esplosione termica del terreno vulcanico che diventa talvolta il nostro corpo. Come fossimo tante Terre pronte a nascere dopo l’eruzione di calore di un big bang. Ci infiammiamo, questa è la constatazione: siamo sempre più propensi a una temperatura capace di alterare le nostre funzioni vitali, e senza saperla davvero controllare o comprendere. Ferreri applica sulle fibre delle proprie opere la visione e la cromia di quanto saremmo solo in grado di percepire sottopelle, e neanche di cogliere pienamente sul piano cognitivo. Cos’è questo calore che pian piano, inascoltato, esonda? Che nome può avere questo fenomeno che, alla fine, mina la salute dell’uomo sfociando in problemi differenti? Ferreri, quando pone a sé stessa e a noi queste domande, pensa agli Iperoggetti teorizzati nell’omonimo libro di Timothy Morton (2013): constatare che il corpo umano sia sempre più spinto verso un’alterazione del proprio equilibrio termico (e ai disturbi che da esso consegue) è qualcosa che risulta inafferrabile, un problema troppo vasto e troppo vago perché se ne possa dare una collocazione intellettualmente sufficiente ed esaustiva.
Tutto sta nel rifluire e nell’ascolto; nel dialogo necessario tra la realtà del corpo e quella dello spirito (concetto preferito da Ferreri a quello di mente, col quale si tende a considerare in modo limitato la sola facoltà razionale), uno spirito che è fatto del sangue che ci irrora, che parla lo stesso linguaggio vitale della cellula, o del nervo. Guardiamo la grande scultura messa ad assorbire i flussi vitali del luogo, come una sanguisuga dipinta del colore dello spirito.
Come a dirci che niente è mai davvero disunito; che è proprio nel ricircolo, nell’assorbimento, nello scambio ininterrotto che può compiersi l’intero che formiamo, guarire, avverarsi la sua piena funzione.
Carola Allemandi